Visualizzazione post con etichetta Padova. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta Padova. Mostra tutti i post
giovedì 1 novembre 2012
Prosegue Veneto Spettacoli di Mistero
Etichette:
Diavolo e diavoli,
Elfi,
Fantasma,
Folletti,
Leggenda,
Ognissanti,
Padova,
Strega,
Stregoneria,
Superstizioni,
Toponimo,
Tradizioni popolari,
Venezia,
Verona
mercoledì 4 luglio 2012
Investigatori del mistero, a Brescia
Bresciaoggi
lunedì 02
luglio 2012
SOPRANNATURALE.
I risultati delle ricerche svolte in aprile sono stati mostrati ieri
Le «voci» del Castello
raccolte dagli Hunters
Tra le registrazioni eseguite ve ne sarebbero tre che incuriosiscono il team. In una si sentirebbero due donne prima dialogare poi ridere
Ne hanno viste e sentite di storie le mura del nostro Castello! Ma forse sono pochi i bresciani che le conoscono e che hanno avuto l´opportunità di ascoltare le voci dei protagonisti attraverso registrazioni audio che da un lato lasciano basiti, dall´altro fanno un po´ sorridere. È merito del «Ghost Hunters Team» se alcuni bresciani hanno potuto ascoltarle e partecipare anche ad una vera e propria indagine che si è svolta ieri sera in alcuni locali del Castello.
I MEMBRI del Ghost Hunters Team, incuriositi dalle tante leggende che contraddistinguono la storia della nostra città e del Falcone d´Italia, hanno voluto affrontare di persona certe presenze che aleggerebbero nelle prigioni e in altre zone del Castello. Tra le tante registrazioni eseguite ve ne sarebbero in particolare tre che avrebbero acceso la curiosità e l´interesse di questi «indagatori dell´incubo» alla Dylan Dog, ma su tutti ha la! meglio un dialogo tra due donne che termina con la risata di una delle due.«Cerchiamo sempre di dare una spiegazione razionale alle anomalie che registriamo, prima di pensare al soprannaturale» spiega Mirko Barbaglia a cui si deve l´idea che ha dato vita al gruppo e che nel pomeriggio di ieri, nel Museo del Risorgimento, in Castello, ha raccontato alcune indagini svolte dal Ght soprattutto nel nord Italia.
Nel labirinto del minotauro all´interno del Castello di San Pelagio (Padova), ad esempio, il Ght ha scattato numerose fotografie nelle quali si possono vedere luminescenze e scie di nebbia invisibili all´occhio nudo: secondo la leggenda, prima della costruzione del labirinto lì aveva sede la tomba della proprietaria del Castello, poi spostata in altro luogo; il fantasma della vecchia signora oggi si aggirerebbe tra le strade del labirinto in cerca di pace.
Agli appassionati di soprannaturale ha inoltre fatto certamente effetto la visione dell´anziana proprietaria di un´abitazione privata ! in provincia di Como, ripresa da una fotocamera all´ultravioletto; così come anche la voce femminile registrata da uno solo degli strumenti utilizzati da Andrea Barbaglia nella stessa situazione, o come la figura nebulosa incontrata e fotografata da Mirko Barbaglia nei sotterranei del Castello di Trezzo sull´Adda.
Oltre poi alle leggende di coleotteri e sette religiose bresciane raccontate da Giampaolo Saccomano, il pubblico ha assistito nel pomeriggio di ieri ad una breve lezione di letteratura: Omero Pesenti, Ceo della società di comunicazione «7(h)art» che collabora con il Ght, ha ricordato alcune opere letterarie in cui i fantasmi sono protagonisti.
Dalle 21 i membri del Ght hanno effettuato una dimostrazione di come viene di norma eseguita un´indagine, mostrando agli interessati l´attrezzatura e la strumentazione con cui si effettuano le misurazioni elettromagnetiche e le eventuali verifiche.
Le «voci» del Castello
raccolte dagli Hunters
Tra le registrazioni eseguite ve ne sarebbero tre che incuriosiscono il team. In una si sentirebbero due donne prima dialogare poi ridere
Ne hanno viste e sentite di storie le mura del nostro Castello! Ma forse sono pochi i bresciani che le conoscono e che hanno avuto l´opportunità di ascoltare le voci dei protagonisti attraverso registrazioni audio che da un lato lasciano basiti, dall´altro fanno un po´ sorridere. È merito del «Ghost Hunters Team» se alcuni bresciani hanno potuto ascoltarle e partecipare anche ad una vera e propria indagine che si è svolta ieri sera in alcuni locali del Castello.
I MEMBRI del Ghost Hunters Team, incuriositi dalle tante leggende che contraddistinguono la storia della nostra città e del Falcone d´Italia, hanno voluto affrontare di persona certe presenze che aleggerebbero nelle prigioni e in altre zone del Castello. Tra le tante registrazioni eseguite ve ne sarebbero in particolare tre che avrebbero acceso la curiosità e l´interesse di questi «indagatori dell´incubo» alla Dylan Dog, ma su tutti ha la! meglio un dialogo tra due donne che termina con la risata di una delle due.«Cerchiamo sempre di dare una spiegazione razionale alle anomalie che registriamo, prima di pensare al soprannaturale» spiega Mirko Barbaglia a cui si deve l´idea che ha dato vita al gruppo e che nel pomeriggio di ieri, nel Museo del Risorgimento, in Castello, ha raccontato alcune indagini svolte dal Ght soprattutto nel nord Italia.
Nel labirinto del minotauro all´interno del Castello di San Pelagio (Padova), ad esempio, il Ght ha scattato numerose fotografie nelle quali si possono vedere luminescenze e scie di nebbia invisibili all´occhio nudo: secondo la leggenda, prima della costruzione del labirinto lì aveva sede la tomba della proprietaria del Castello, poi spostata in altro luogo; il fantasma della vecchia signora oggi si aggirerebbe tra le strade del labirinto in cerca di pace.
Agli appassionati di soprannaturale ha inoltre fatto certamente effetto la visione dell´anziana proprietaria di un´abitazione privata ! in provincia di Como, ripresa da una fotocamera all´ultravioletto; così come anche la voce femminile registrata da uno solo degli strumenti utilizzati da Andrea Barbaglia nella stessa situazione, o come la figura nebulosa incontrata e fotografata da Mirko Barbaglia nei sotterranei del Castello di Trezzo sull´Adda.
Oltre poi alle leggende di coleotteri e sette religiose bresciane raccontate da Giampaolo Saccomano, il pubblico ha assistito nel pomeriggio di ieri ad una breve lezione di letteratura: Omero Pesenti, Ceo della società di comunicazione «7(h)art» che collabora con il Ght, ha ricordato alcune opere letterarie in cui i fantasmi sono protagonisti.
Dalle 21 i membri del Ght hanno effettuato una dimostrazione di come viene di norma eseguita un´indagine, mostrando agli interessati l´attrezzatura e la strumentazione con cui si effettuano le misurazioni elettromagnetiche e le eventuali verifiche.
martedì 1 novembre 2011
La leggenda delle Mantelle Rosse di Montagnana
L'articolo originale è qui:
http://it.paperblog.com/la-leggenda-delle-mantelle-rosse-di-montagnana-659878/
La leggenda delle Mantelle Rosse di Montagnana
Montagnana, in provincia di Padova
Una leggenda narra che la bella città murata di Montagnana riuscì a salvarsi dalle invasioni dei Veronesi grazie a un interessante stratagemma. Siamo intorno al 1200, epoca in cui le invasioni dei veronesi nei territori padovani erano quasi all’ordine del giorno.
Un giorno di mercato, un messo arrivò tutto trafelato, portando la terribile notizia che l’esercito veronese aveva deciso di attaccare Montagnana.
Subito si mosse la macchina da guerra: il fossato che circondava e difendeva la città murata venne riempito d’acqua fino all’orlo, la città venne fornita di viveri per affrontare il lungo assedio che si stava paventando. Alcuni messaggeri vennero inviati a Padova per chiedere soccorso nel caso di un imminente assedio. Mentre il nemico avanzava in forze, Montagnana aspettava con trepidazione, perché si sapeva che il numero degli invasori era di gran lunga superiore a quello dei soldati che potevano difendere la città.
La cinta murata di Montagnana
I saggi del Gran Consiglio allora ebbero un’idea: se avessero infatti messo dei drappi sopra a delle croci, e se avessero messo dei fantocci di legno rivestiti di drappi rossi sopra gli spalti della città, forse il nemico avrebbe pensato che si trattasse di altri soldati e si sarebbe per lo meno rallentato. E così fecero: vennero requisite tutte le stoffe rosse che si trovavano nella città murata, e con quelle stoffe vennero confezionati dei mantelli.
Furono poi costruiti in fretta e in furia dei fantocci di legno che, posizionati sugli spalti e rivestiti dei mantelli rossi, riempirono tutto il camminamento superiore delle mura.
Montagnana...by night!
I veronesi attaccarono Montagnana alle prime luci dell'alba, e arrivati sotto le mura, videro un'impressionante distesa di guerrieri che, le armi in pugno, erano pronti a difendere la loro città.
Contemporanemente, si aprirono le porte della città e un numerossissimo esercito di soldati dai mantelli rossi uscì gridando, con le armi sguainate, pronti a ricacciare indietro gli invasori veronesi.
In realtà, se i Veronesi avessero osservato con più attenzione, si sarebbero forse accorti che quegli sugli spalti altri non erano che manichini, e l'esercito che era uscito da Montagnana era composto per la maggior parte da donne, vecchi e bambini, gente, quindi, priva di ogni conoscenza di guerra e assolutamente inadatta a difendere la città murata.
Tanto bastò, però, perchè i Veronesi fecessero dietro-front e rinunciassero all'assedio, sorpresi che Montagnana potesse disporre di un esercito tanto potente.
Le mantelle rosse
Purtroppo però l'inganno fu ben presto scoperto. nella stessa giornata il nemico, osservando i soldati sugli spalti che erano innaturalmente immobili ed essendosi accorti che sotto il mantello rosso di cui i guerrieri erano rivestiti si celavano per lo più vecchi e donne, tornarono sui loro passi per conquistare la città e punire duramente i montagnanesi che avevano osato beffarli.
Ad attenderli però trovarono l'esercito di Padova, che era nel frattempo giunto a difesa della città murata, e i Veronesi furono sconfitti e cacciati definitivamente.
Montagnana era salva. Si festeggiò per una settimana intera e si decise, con un editto della città ancor oggi in vigore, che ogni anno venisse ricordato quell'evento fortunoso con una parata di cittadini, tutti con i mantelli rossi.
http://it.paperblog.com/la-leggenda-delle-mantelle-rosse-di-montagnana-659878/
La leggenda delle Mantelle Rosse di Montagnana
Montagnana, in provincia di Padova
Una leggenda narra che la bella città murata di Montagnana riuscì a salvarsi dalle invasioni dei Veronesi grazie a un interessante stratagemma. Siamo intorno al 1200, epoca in cui le invasioni dei veronesi nei territori padovani erano quasi all’ordine del giorno.
Un giorno di mercato, un messo arrivò tutto trafelato, portando la terribile notizia che l’esercito veronese aveva deciso di attaccare Montagnana.
Subito si mosse la macchina da guerra: il fossato che circondava e difendeva la città murata venne riempito d’acqua fino all’orlo, la città venne fornita di viveri per affrontare il lungo assedio che si stava paventando. Alcuni messaggeri vennero inviati a Padova per chiedere soccorso nel caso di un imminente assedio. Mentre il nemico avanzava in forze, Montagnana aspettava con trepidazione, perché si sapeva che il numero degli invasori era di gran lunga superiore a quello dei soldati che potevano difendere la città.
La cinta murata di Montagnana
I saggi del Gran Consiglio allora ebbero un’idea: se avessero infatti messo dei drappi sopra a delle croci, e se avessero messo dei fantocci di legno rivestiti di drappi rossi sopra gli spalti della città, forse il nemico avrebbe pensato che si trattasse di altri soldati e si sarebbe per lo meno rallentato. E così fecero: vennero requisite tutte le stoffe rosse che si trovavano nella città murata, e con quelle stoffe vennero confezionati dei mantelli.
Furono poi costruiti in fretta e in furia dei fantocci di legno che, posizionati sugli spalti e rivestiti dei mantelli rossi, riempirono tutto il camminamento superiore delle mura.
Montagnana...by night!
I veronesi attaccarono Montagnana alle prime luci dell'alba, e arrivati sotto le mura, videro un'impressionante distesa di guerrieri che, le armi in pugno, erano pronti a difendere la loro città.
Contemporanemente, si aprirono le porte della città e un numerossissimo esercito di soldati dai mantelli rossi uscì gridando, con le armi sguainate, pronti a ricacciare indietro gli invasori veronesi.
In realtà, se i Veronesi avessero osservato con più attenzione, si sarebbero forse accorti che quegli sugli spalti altri non erano che manichini, e l'esercito che era uscito da Montagnana era composto per la maggior parte da donne, vecchi e bambini, gente, quindi, priva di ogni conoscenza di guerra e assolutamente inadatta a difendere la città murata.
Tanto bastò, però, perchè i Veronesi fecessero dietro-front e rinunciassero all'assedio, sorpresi che Montagnana potesse disporre di un esercito tanto potente.
Le mantelle rosse
Purtroppo però l'inganno fu ben presto scoperto. nella stessa giornata il nemico, osservando i soldati sugli spalti che erano innaturalmente immobili ed essendosi accorti che sotto il mantello rosso di cui i guerrieri erano rivestiti si celavano per lo più vecchi e donne, tornarono sui loro passi per conquistare la città e punire duramente i montagnanesi che avevano osato beffarli.
Ad attenderli però trovarono l'esercito di Padova, che era nel frattempo giunto a difesa della città murata, e i Veronesi furono sconfitti e cacciati definitivamente.
Montagnana era salva. Si festeggiò per una settimana intera e si decise, con un editto della città ancor oggi in vigore, che ogni anno venisse ricordato quell'evento fortunoso con una parata di cittadini, tutti con i mantelli rossi.
venerdì 19 agosto 2011
Padova, al Castello del Catajo tra magnolie e fantasmi
Al Castello del Catajo tra magnolie e fantasmi
A Battaglia Terme, lungo il corso del fiume. Guerra, potere, intrighi e vendette. Ripercorrendo la saga degli Obizzi nel paradiso tra i Colli Euganei
PADOVA — Imponente e magico. Come le gesta di chi lo abitò. Il Castello del Catajo spunta all’improvviso tra il verde, lungo l’argine del Canale Battaglia, nel padovano. Immenso, a testimoniare la grandezza e la forza degli Obizzo (o Obizzi), famiglia di militari mercenari diventati ricchissimi grazie al loro esercito privato che combattè per tutte le signorie dell’epoca, dagli Scaligeri di Verona, ai Carraresi di Padova, vittoriosi anche nella famosa battaglia di Lepanto del 1571. E’ un paradiso di natura e storia, quello del Cataio, incastonato tra i Colli Euganei. Un parco enorme circonda il castello e accoglie il visitatore, tra viali, piante esotiche, fontane, magnolie e pure una sequoia del 16oo, una delle prime che in quegli anni arrivarono dall’America. Accanto al laghetto punteggiato di ninfee, c’è ancora la piscina scavata nella roccia dove facevano il bagno i nobili dell’epoca o le dame, riparate sotto grandi tendaggi per evitare il contatto con i raggi del sole. Il Castello oggi è monumento nazionale, ereditato nel 1986 dai Dalla Francesca di Padova: 23 mila metri quadrati, 4oo stanze.
Visite guidate, laboratori didattici, sale in affitto per matrimoni, concerti o meeting, mantengono vivo il complesso, che conserva ancora in ottimo stato affreschi di Gian Battista Zelotti, allievo del Veronese, che celebrano le gesta valorose degli Obizzi. Ma gran parte della magia del Castello è legata alle vicende d’amore e morte che hanno accompagnato nei secoli i protagonisti della saga degli Obizzi. Ad iniziare dall’assassinio della bella Lucrezia Dondi dell’Orologio, moglie di Pio Enea II Obizzi, uccisa nel 16oo da quello che credevano un fedele cortigiano, Attilio Pavanello. La leggenda narra che Lucrezia fu uccisa con una rasoiata alla gola nella sua camera da letto, mentre indossava una vestaglia rosa, colpita da Pavanello su incarico di un corteggiatore respinto. Ferdinando, figlio di Lucrezia, anni dopo vendicò la madre ammazzando a sua volta Pavanello, ma il vero mandante restò impunito. L’anima di Lucrezia ancora non se ne dà pace, così vaga tra le sale del Catajo, avvistata ogni tanto dai visitatori. Anche recentemente durante un concerto al Castello dei Solisti Veneti, tra il pubblico fu notata una signora con la vestaglia rosa affacciarsi dalle finestre più alte, quelle che da anni sono chiuse e inagibili... Anni dopo l’omicidio di Lucrezia, l’ultimo erede degli Obizzi, Tommaso, perpetrò un nuovo delitto: uccise per gelosia la moglie Barbara Querini, che si diceva lo tradisse. Anche questo fantasma pare abitare tutt’ora il Catajo. «E c’è anche chi sostiene che pure l’anima di Gabrina, la più nota cortigiana del Castello, che naque e morì qui, ancora si aggira per queste stanze - rivela Andrea DallaFrancesca, 35 anni, uno degli eredi di ultima generazione, che si occupa della storia del castello fin da quando aveva 16 anni - . Gabrina era brutta, ma imbattibile a letto, molto ricercata per le sue qualità amatorie, tanto che Pio Enea II Obizzo dopo la sua morte la ricordò con un busto che nascondeva un gioco d’acqua ».
Chi si avvicina alla testa di Gabrina, ancora oggi, viene bagnato da un getto d’acqua. «Gabrina qui giace vecchia e lasciva - dice l’effige - che benchè sorda, stralunata e zoppa, si trastullò in amor finchè fu viva». Il Catajo si chiama così dall’origine del toponimo del 12oo «Ca’ lungo il tajo», casa lungo il canale. «Ma quando nel 1570 Obizzo costruì il castello - racconta Andrea Dalla Francesca - , fedele alle sue manie istrioniche, disse che l’aveva chamato in questo modo in onore di Marco Polo e del Catai...». Se l’interno è imponente e ricco di affreschi, l’esterno è caratterizzato da una immensa distesa verde. Oltre al parco, dietro al castello, c’è un colle che nel 1600 fu recintato con un alto muro, in cui vivono e continuano a riprodursi una quarantina di daini, oasi naturalistica purtroppo minacciata dai bracconieri della zona. Dopo l’ultimo Obizzo (Tommaso), che morì senza eredi, il Castello del Catajo passò ai duchi di Modena, quindi agli Asburgo e fu poi confiscato dallo stato italiano. Nel 1929, messo all’asta, fu acquistato dalla famiglia Dalla Francesca. Oggi gli eredi, a causa delle stratosferiche spese di manutenzione, stanno cercando di venderlo: il valore è di circa 20 milioni di euro, per restaurarlo servono altri 4o milioni. Sebbene si siano fatti avanti industriali e sceicchi e pure emissari di Berlusconi e di Putin, l’immensa proprietà resta ancora invenduta. (continua)
Francesca Visentin
18 agosto 2011
http://corrieredelveneto.corriere.it/veneto/notizie/cultura_e_tempolibero/2011/18-agosto-2011/al-castello-catajo-magnolie-fantasmi-1901314629700.shtml
A Battaglia Terme, lungo il corso del fiume. Guerra, potere, intrighi e vendette. Ripercorrendo la saga degli Obizzi nel paradiso tra i Colli Euganei
PADOVA — Imponente e magico. Come le gesta di chi lo abitò. Il Castello del Catajo spunta all’improvviso tra il verde, lungo l’argine del Canale Battaglia, nel padovano. Immenso, a testimoniare la grandezza e la forza degli Obizzo (o Obizzi), famiglia di militari mercenari diventati ricchissimi grazie al loro esercito privato che combattè per tutte le signorie dell’epoca, dagli Scaligeri di Verona, ai Carraresi di Padova, vittoriosi anche nella famosa battaglia di Lepanto del 1571. E’ un paradiso di natura e storia, quello del Cataio, incastonato tra i Colli Euganei. Un parco enorme circonda il castello e accoglie il visitatore, tra viali, piante esotiche, fontane, magnolie e pure una sequoia del 16oo, una delle prime che in quegli anni arrivarono dall’America. Accanto al laghetto punteggiato di ninfee, c’è ancora la piscina scavata nella roccia dove facevano il bagno i nobili dell’epoca o le dame, riparate sotto grandi tendaggi per evitare il contatto con i raggi del sole. Il Castello oggi è monumento nazionale, ereditato nel 1986 dai Dalla Francesca di Padova: 23 mila metri quadrati, 4oo stanze.
Visite guidate, laboratori didattici, sale in affitto per matrimoni, concerti o meeting, mantengono vivo il complesso, che conserva ancora in ottimo stato affreschi di Gian Battista Zelotti, allievo del Veronese, che celebrano le gesta valorose degli Obizzi. Ma gran parte della magia del Castello è legata alle vicende d’amore e morte che hanno accompagnato nei secoli i protagonisti della saga degli Obizzi. Ad iniziare dall’assassinio della bella Lucrezia Dondi dell’Orologio, moglie di Pio Enea II Obizzi, uccisa nel 16oo da quello che credevano un fedele cortigiano, Attilio Pavanello. La leggenda narra che Lucrezia fu uccisa con una rasoiata alla gola nella sua camera da letto, mentre indossava una vestaglia rosa, colpita da Pavanello su incarico di un corteggiatore respinto. Ferdinando, figlio di Lucrezia, anni dopo vendicò la madre ammazzando a sua volta Pavanello, ma il vero mandante restò impunito. L’anima di Lucrezia ancora non se ne dà pace, così vaga tra le sale del Catajo, avvistata ogni tanto dai visitatori. Anche recentemente durante un concerto al Castello dei Solisti Veneti, tra il pubblico fu notata una signora con la vestaglia rosa affacciarsi dalle finestre più alte, quelle che da anni sono chiuse e inagibili... Anni dopo l’omicidio di Lucrezia, l’ultimo erede degli Obizzi, Tommaso, perpetrò un nuovo delitto: uccise per gelosia la moglie Barbara Querini, che si diceva lo tradisse. Anche questo fantasma pare abitare tutt’ora il Catajo. «E c’è anche chi sostiene che pure l’anima di Gabrina, la più nota cortigiana del Castello, che naque e morì qui, ancora si aggira per queste stanze - rivela Andrea DallaFrancesca, 35 anni, uno degli eredi di ultima generazione, che si occupa della storia del castello fin da quando aveva 16 anni - . Gabrina era brutta, ma imbattibile a letto, molto ricercata per le sue qualità amatorie, tanto che Pio Enea II Obizzo dopo la sua morte la ricordò con un busto che nascondeva un gioco d’acqua ».
Chi si avvicina alla testa di Gabrina, ancora oggi, viene bagnato da un getto d’acqua. «Gabrina qui giace vecchia e lasciva - dice l’effige - che benchè sorda, stralunata e zoppa, si trastullò in amor finchè fu viva». Il Catajo si chiama così dall’origine del toponimo del 12oo «Ca’ lungo il tajo», casa lungo il canale. «Ma quando nel 1570 Obizzo costruì il castello - racconta Andrea Dalla Francesca - , fedele alle sue manie istrioniche, disse che l’aveva chamato in questo modo in onore di Marco Polo e del Catai...». Se l’interno è imponente e ricco di affreschi, l’esterno è caratterizzato da una immensa distesa verde. Oltre al parco, dietro al castello, c’è un colle che nel 1600 fu recintato con un alto muro, in cui vivono e continuano a riprodursi una quarantina di daini, oasi naturalistica purtroppo minacciata dai bracconieri della zona. Dopo l’ultimo Obizzo (Tommaso), che morì senza eredi, il Castello del Catajo passò ai duchi di Modena, quindi agli Asburgo e fu poi confiscato dallo stato italiano. Nel 1929, messo all’asta, fu acquistato dalla famiglia Dalla Francesca. Oggi gli eredi, a causa delle stratosferiche spese di manutenzione, stanno cercando di venderlo: il valore è di circa 20 milioni di euro, per restaurarlo servono altri 4o milioni. Sebbene si siano fatti avanti industriali e sceicchi e pure emissari di Berlusconi e di Putin, l’immensa proprietà resta ancora invenduta. (continua)
Francesca Visentin
18 agosto 2011
http://corrieredelveneto.corriere.it/veneto/notizie/cultura_e_tempolibero/2011/18-agosto-2011/al-castello-catajo-magnolie-fantasmi-1901314629700.shtml
sabato 13 agosto 2011
A Monselice (Padova) visita al castello tra leggende e fantasmi
Il castello sussurra a Monselice
Il Castello sussurra.... i fantasmi degli amanti Carraresi tra leggenda e realtà. La Società Rocca di Monselice organizza per domenica 14 e domenica 28 agosto 2011, alle ore 21.30, visite guidate notturne al castello di Monselice con percorso sonoro a cura di Alberto Giordani.
un paio di link con i riferimenti e la locandina:
http://pdeventi.blogspot.com/2011/08/il-castello-sussurra-monselice.html
http://www.castellodimonselice.it/it-IT/News/2011-06-28/---il-castello-sussurra---

giovedì 24 marzo 2011
La condanna non nasce in laboratorio
L'Arena
IL GIORNALE DI VERONA
Sabato 19 Marzo 2011 CRONACA Pagina 19
GIURISPRUDENZA. Con Adonella Presutti
Scienza e crimini,
la condanna non nasce in laboratorio
Il giudice deve trovare riscontri
Sfatare la convinzione comune che la sorte dei processi si decida nei laboratori. É quello che hanno cercato di fare i relatori della conferenza «Scienza e processo penale: la prova genetica» che si è svolto alla facoltà di Giurisprudenza nell'ambito di Infinitamente. Il giornalista Alessio Corazza ha moderato l'incontro con Adonella Presutti, ordinario di diritto processuale all'ateneo scaligero, Vincenzo Santoro, presidente della sezione penale militare di Verona e Giuseppe Sartori, ordinario di neuroscienze cognitive all'università di Padova.
«Molto spesso si considerano le prove scientifiche uno strumento per eliminare l'errore del giudice e arrivare a quella perfezione che, errando, si cerca nella giurisprudenza», ha detto Stefano Troiano, preside della facoltà di Giurisprudenza nell'introdurre l'incontro. Dello stesso avviso la Presutti che ha infatti e! sordito sostenendo che «i processi non si decidono in laboratorio» e ha aggiunto: «É noto che l'evoluzione scientifica ha portato strumenti che hanno migliorato le indagini, l'ausilio della scienza è importante e irrinunciabile, sia per trovare i colpevoli sia per rimuovere una condanna ingiustamente inflitta, ma le prove scientifiche non sono un dato risolutivo nell'ambito di un processo, hanno valore puramente indiziario e l'obbligo del giudice è sempre quello di trovare dei riscontri». Un punto chiarito da Santoro rivendicando la centralità del giudice nella ricostruzione dei fatti sulla base di tutte le prove a sua disposizione. Ma ha anche sottolineato la necessità per i magistrati di potersi fidare dei periti e ha per questo proposto una sorta di bollino blu degli scienziati.
Ad ampliare il dibattito dal semplice uso del Dna come prova scientifica alla base di una sentenza di condanna o assoluzione di un reato, ad altri! aspetti scientifici ci ha pensato Sartori portando l'esempio ! che l'ha visto coinvolto in una perizia in appello sulla seminfermità dell'imputato. Un caso che fece il giro del mondo perché giudicato la scoperta di una sorta di «gene dell'assassino» che in quel particolare caso avvalorava la seminfermità.
La questione era in realtà più complessa e, come ha chiarito lo stesso Sartori, fu poi il giudice a stabilire il valore della prova scientifica al fine della sentenza. Insomma, la scienza governata dall'uomo e non l'uomo governato dalla scienza. Soprattutto nelle aule dei tribunali. G.COZ.
IL GIORNALE DI VERONA
Sabato 19 Marzo 2011 CRONACA Pagina 19
GIURISPRUDENZA. Con Adonella Presutti
Scienza e crimini,
la condanna non nasce in laboratorio
Il giudice deve trovare riscontri
Sfatare la convinzione comune che la sorte dei processi si decida nei laboratori. É quello che hanno cercato di fare i relatori della conferenza «Scienza e processo penale: la prova genetica» che si è svolto alla facoltà di Giurisprudenza nell'ambito di Infinitamente. Il giornalista Alessio Corazza ha moderato l'incontro con Adonella Presutti, ordinario di diritto processuale all'ateneo scaligero, Vincenzo Santoro, presidente della sezione penale militare di Verona e Giuseppe Sartori, ordinario di neuroscienze cognitive all'università di Padova.
«Molto spesso si considerano le prove scientifiche uno strumento per eliminare l'errore del giudice e arrivare a quella perfezione che, errando, si cerca nella giurisprudenza», ha detto Stefano Troiano, preside della facoltà di Giurisprudenza nell'introdurre l'incontro. Dello stesso avviso la Presutti che ha infatti e! sordito sostenendo che «i processi non si decidono in laboratorio» e ha aggiunto: «É noto che l'evoluzione scientifica ha portato strumenti che hanno migliorato le indagini, l'ausilio della scienza è importante e irrinunciabile, sia per trovare i colpevoli sia per rimuovere una condanna ingiustamente inflitta, ma le prove scientifiche non sono un dato risolutivo nell'ambito di un processo, hanno valore puramente indiziario e l'obbligo del giudice è sempre quello di trovare dei riscontri». Un punto chiarito da Santoro rivendicando la centralità del giudice nella ricostruzione dei fatti sulla base di tutte le prove a sua disposizione. Ma ha anche sottolineato la necessità per i magistrati di potersi fidare dei periti e ha per questo proposto una sorta di bollino blu degli scienziati.
Ad ampliare il dibattito dal semplice uso del Dna come prova scientifica alla base di una sentenza di condanna o assoluzione di un reato, ad altri! aspetti scientifici ci ha pensato Sartori portando l'esempio ! che l'ha visto coinvolto in una perizia in appello sulla seminfermità dell'imputato. Un caso che fece il giro del mondo perché giudicato la scoperta di una sorta di «gene dell'assassino» che in quel particolare caso avvalorava la seminfermità.
La questione era in realtà più complessa e, come ha chiarito lo stesso Sartori, fu poi il giudice a stabilire il valore della prova scientifica al fine della sentenza. Insomma, la scienza governata dall'uomo e non l'uomo governato dalla scienza. Soprattutto nelle aule dei tribunali. G.COZ.
lunedì 31 gennaio 2011
La leggenda di Mantova
LA STORIA LE LEGGENDE
Etrusca o greca? Due leggende dividono Mantova
La fondazione risalirebbe a «Manto»: per una civiltà dea delle tenebre, per l' altra figlia dell' indovino Tiresia
MANTOVA - Già il luogo di nascita di questa città porta dritto all' enigma: un piccolo acquitrino circondato dal Mincio, che appena sale la inonda e le trafuga ogni segno, ogni testimonianza. Ti immagini questo luogo solitario, buio, sospeso nel silenzio delle nebbie e lo sciabordio dell' acqua: e per nutrimento uccelli acquatici e pesce dolce, nessun campo da seminare, nessun commercio da praticare. Così isolato, così lontano da tutto, così irreale. È facile credere alla leggenda che dicono Mantova fondata dalla maga Manto, figlia dell' indovino Tiresia fuggito da Tebe, e anche lei fuggitiva. Facile da pensare, perché niente, a chi voglia nascondersi, è più sicuro di quest' isola impraticabile e coperta di canne. Non sarà infatti un caso se molti secoli dopo i Gonzaga si servirono della suggestiva leggenda per decorare i saloni dei loro palazzi: la nobile e greca indovina che si aggira nel misterioso paesaggio lacustre. Della leggenda della maga Manto si parla sempre. Mentre nelle campagne, ai bambini che ancora non sono stati in città, è diffuso l' invito ad andare a baciare i piedi della «vecchia Mantova», identificata nella figura di marmo bianco di Verona, i capelli lunghi e la testa coronata, le mani posate su una tavola tenuta sui ginocchi, seduta a gambe larghe dentro la nicchia del palazzo comunale; (benché le ragazze di 30 anni fa che passavano per via Pescheria più facilmente la riconoscessero nella sguaiata venditrice con gli stivaloni di gomma e un grembiulone di cerata, che pesava le anguille vive). Naturalmente Rodolfo Signorini, storico esigentissimo che prende in considerazione solo i documenti, puntualizza che «la vecchia Manto» dentro la nicchia è Virgilio, massima gloria mantovana: «Quel che possiamo dire dell' origine della città è che fu etrusca e poi romana, e che il suo nome quasi di sicuro deriva da Manto, etrusca divinità infernale». Degli etruschi, probabili fondatori di Mantova già mille anni prima di Cristo, mancano quasi del tutto i reperti, a parte due anfore trovate scavando in piazza Sordello, il luogo dove Mantova iniziò la sua vita, la terra più alta di tutto l' acquitrino. Anche se adesso le carte dicono 25 metri sul livello del mare, rispetto a un tempo è quasi una montagna: basta vedere le arie che si danno i ciclisti quando ne escono passando sotto il «voltone» dove fu alzata la prima porta della città: paiono discender dall' Adamello. Se trova qualcuno che fa la guardia alla cassa, la signora/Virgilio che gestisce il Caffè Accademia per scalette e cunicoli ti accompagna in cantina, molto sotto al livello stradale e mostra il pavimento romano, un bellissimo mosaico geometrico bianco e nero. «Questa era forse la casa di un benestante» mormora il professor Signorini. Trattandosi di interessante e prezioso reperto, subito viene da chiedere: che cosa ci fa ancora qui? Chi lo tiene pulito? Lo tiene pulito la signora/Virgilio, ma solo perché si tratta di una signora gentile. Quanto al luogo, sono anni che si attende il definitivo restauro della bellissima sede del Museo archeologico. Frattanto, a parte il pavimento nella cantina del Caffè Accademia, quel che resta del passaggio romano è in un cortile del palazzo Ducale: un sarcofago, alcune lapidi funerarie, una dedicata da una signora ai suoi tre mariti, qualche torso maschile e qualche testa. C' era anche un tratto di selciato trovato scavando in piazza Broletto. Ma non c' è più. Certo, non è stato né disfatto e neppure rubato: ma non c' è più. C' è invece, curiosamente, una testolina di marmo incastrata fra le colonne di un' alta bifora della torre campanaria del Duomo, chissà come e chi l' ha portata lassù. E intanto il mistero di questa città ti intriga ancora di più: pare un de Chirico, un Magritte formato padano, un surreale giochino della fantasia. Che cosa ci facessero i romani, qua dentro il lago, non è dato sapere. La grande strada di collegamento fra Verona e la via Emilia non passava da qui; né la Gallica che congiungeva Torino con Padova, e neppure quella che univa Verona con Cremona. Tutte al largo di Mantova: e si vede a occhio nudo che una strada di importante collegamento non può permettersi di scavalcare il Mincio in forma di lago, affondare nella palude e arrancando raggiungere la terra asciutta. Tradizione peraltro immutata, dal momento che i collegamenti con Mantova anche oggi sono tali da farne una delle più isolate fra le città d' Italia. Dunque, gli etruschi erano arrivati fin qui con i loro zufoli di terra, i pugnali, i fondi di cesto intrecciato, le anfore per metterci il grano, l' olio, e anche i morti. Trattandosi di gente intraprendente si erano organizzati in una repubblica retta dai magistrati, mentre la classe dirigente dominava sui lavori agricoli e sui commerci via fiume: c' era il porto naturalmente, pressappoco dove adesso l' immenso monumento a Virgilio sull' omonima piazza indigna il professor Signorini: «È vergognoso che sia diventato il posto più sporco della città». Versi in latino non se ne leggono più, in compenso «Ornella ti amo» è il graffito più decente e gentile. Del passaggio dei Galli che con la loro furia distruttrice spazzarono via i civilissimi etruschi, neanche l' ombra; e niente neppure dei Celti che, fra un' incursione e una razzia, insieme ai Galli si erano fermati almeno due secoli. La città rimase piccola per moltissimo tempo: piazza Sordello, piazza Virgilio, via Cairoli e il lago: oltre non si poteva andare, si sprofondava fra i branzini e le carpe. I romani bonificarono il tratto fra via Cairoli, piazza Paradiso, via Tazzoli e via Cavour: qui perché frattanto si era un poco alzata e asciugata la terra. Scavarono un fossato, alzarono le mura, aprirono quattro porte, le case di legno cominciarono a coprirsi di mattoni o di marmo. Il Mincio incombeva sempre, bastava un' alluvione per cancellare la città della greca indovina. Dev' esserne rimasto impressionato anche Virgilio, che parlando della sua terra aveva scritto «Ingens Mincius», Mincio grande, grandissimo; il Mincio che nel 589 si gonfiò tanto da deviare il proprio corso: non andò più a gettarsi in Adriatico, ma trovò sfogo nel Po, all' altezza di Governolo; il Mincio che a ogni rigurgito del Po saltava addosso a Mantova: e se alla fine dell' XI secolo non fosse arrivato il geniale architetto Pitentino a risolvere il problema, la città non avrebbe avuto futuro. Altrimenti come si spiega il fatto che, dei monumenti romani, nulla è rimasto, neppure sotto le innumerevoli chiese che fiorirono intorno al Mille, sempre sopra i resti di un tempio pagano. L' indovina greca sia la benvenuta e si accomodi, stiano invece lontane le divinità pagane, Mantova è protetta solo da quando si onorano i santi Pietro e Paolo, Alessandro e Agata, Cosma e Damiano, Zenone e Stefano, Salvatore, Lorenzo, Silvestro e Andrea, oltre alle varie santissime Croci e Madonne. «Si può identificare la vera data di nascita di Mantova: il 3 marzo 1048 - puntualizza Signorini - perché, a questo punto, finalmente parlano la carte». Dopo aver sognato per ben tre volte sant' Andrea che gli indicava il luogo dov' era stata nascosta la cassetta contenente le ampolle col sangue di Gesù Crocefisso, raccolte sul Golgota dal soldato Longino (arrivato fin qui risanato dalla vista, convertito e martirizzato) il cieco e tedesco eremita Adalberto riuscì a individuare la preziosa reliquia: e nell' orto dell' ospedale di sant' Andrea, al ritrovamento del Sangue e delle ossa del martire, assistevano inginocchiati la contessa Beatrice di Canossa e il vescovo Marziale che due anni prima, coi soldi della ricca signora che voleva ricordare la nascita di sua figlia Matilde, aveva cominciato a costruire la cattedrale di sant' Andrea: «Da allora, invitati dai signori della città Beatrice e Bonifacio di Canossa, per venerare il Santissimo Sangue che ancora si trova racchiuso dietro sette porte e sette cancelli, arrivarono imperatori, papi, principesse e regine, si tennero concilii e diete, facendo di Mantova una città importantissima». «E allora, anche questa è leggenda - polemizza Giancarlo Malacarne, storico e direttore di "Civiltà Mantovana" -: altrimenti come si spiegherebbe che quella che dovrebbe essere la più grande reliquia della cristianità è venerata solo dai mantovani? Come mai non arrivano a Mantova i pellegrini del mondo? Per non dire delle ossa di san Longino: sono cinque gli scheletri finora trovati». A lui sta bene che Mantova sia stata fondata dall' indovina di Tebe; oppure, come ricorda Virgilio, da suo figlio Ocno che nacque dagli amori di Mantova col fiume Tevere. Gli sta bene che, a differenza di tante città italiane fondate da visioni di santi, ritrovamento di ossa martirizzate, voli di angeliche colombe, Mantova abbia origine da una leggenda tenebrosa e gloriosa: «nientemeno che dalla Grecia, veniamo». E gli sta bene che nel ' 700, scavando ai piedi della porta Cerese, fu trovata una grossa chiave di bronzo che per un bel po' fu ritenuta la chiave della vicina città etrusca: «Poi fu osservato che la chiave portava incisa una torre che aveva una gabbia, la torre della gabbia che tutti ancora vediamo a fianco del "voltone" verso piazza Sordello; peccato però che, con gli etruschi, non abbia niente a che fare: è di età comunale. Così che piano piano la chiave ha perduto la sua leggenda, finché a furia di passare da una mano all' altra non si è perduta anche lei. E comunque, pur vivendo di documenti, non posso rifiutare spazio alla fantasia. Anche il principe rinascimentale si immerge nella leggenda: nella storica tela del Morone che racconta la vittoria dei Gonzaga su Passerino Bonaccolsi, una stupenda signora osserva, sola, avvolta in un mantello a bande oro e nero, la casata dei vincitori: e chi vuoi che sia, se non ancora l' indovina Manto. Nessuno si batterà mai per dimostrare che la leggenda è verità; ma nella nascita della città, è il mito quello che conta». L' etimologia LA DIVINITA' Il nome Mantova, secondo lo storico Rodolfo Signorini, quasi sicuramente deriva da «Manto», un' etrusca divinità infernale. Così come etrusca fu l' origine della città, quasi 1.000 anni prima di Cristo LA MAGA Secondo molte leggende, invece, Manto è una maga greca, figlia dell' indovino Tiresia, fuggito da Tebe, e anche lei fuggitiva. Trovò rifugio nell' acquitrino dove poi nacque la città. Secondo altri, è suo figlio Ocno, nato da Manto e il fiume Tevere, ad aver fondato la città LO STORICO / 2 Malacarne: nella nascita è il mito che conta. Noi veniamo dalla maga di Tebe, che compare anche in un dipinto del Morone: è una donna sola, con il mantello a bande oro e nere dei Gonzaga LO STORICO / 1 Signorini: Le origini, mille anni avanti Cristo, risalgono all' Etruria e poi a Roma. Ma i primi documenti sono datati 1048 e raccontano dell' eremita tedesco Adalberto
Ferri Edgarda
Pagina 52
(14 aprile 2002) - Corriere della Sera
Etrusca o greca? Due leggende dividono Mantova
La fondazione risalirebbe a «Manto»: per una civiltà dea delle tenebre, per l' altra figlia dell' indovino Tiresia
MANTOVA - Già il luogo di nascita di questa città porta dritto all' enigma: un piccolo acquitrino circondato dal Mincio, che appena sale la inonda e le trafuga ogni segno, ogni testimonianza. Ti immagini questo luogo solitario, buio, sospeso nel silenzio delle nebbie e lo sciabordio dell' acqua: e per nutrimento uccelli acquatici e pesce dolce, nessun campo da seminare, nessun commercio da praticare. Così isolato, così lontano da tutto, così irreale. È facile credere alla leggenda che dicono Mantova fondata dalla maga Manto, figlia dell' indovino Tiresia fuggito da Tebe, e anche lei fuggitiva. Facile da pensare, perché niente, a chi voglia nascondersi, è più sicuro di quest' isola impraticabile e coperta di canne. Non sarà infatti un caso se molti secoli dopo i Gonzaga si servirono della suggestiva leggenda per decorare i saloni dei loro palazzi: la nobile e greca indovina che si aggira nel misterioso paesaggio lacustre. Della leggenda della maga Manto si parla sempre. Mentre nelle campagne, ai bambini che ancora non sono stati in città, è diffuso l' invito ad andare a baciare i piedi della «vecchia Mantova», identificata nella figura di marmo bianco di Verona, i capelli lunghi e la testa coronata, le mani posate su una tavola tenuta sui ginocchi, seduta a gambe larghe dentro la nicchia del palazzo comunale; (benché le ragazze di 30 anni fa che passavano per via Pescheria più facilmente la riconoscessero nella sguaiata venditrice con gli stivaloni di gomma e un grembiulone di cerata, che pesava le anguille vive). Naturalmente Rodolfo Signorini, storico esigentissimo che prende in considerazione solo i documenti, puntualizza che «la vecchia Manto» dentro la nicchia è Virgilio, massima gloria mantovana: «Quel che possiamo dire dell' origine della città è che fu etrusca e poi romana, e che il suo nome quasi di sicuro deriva da Manto, etrusca divinità infernale». Degli etruschi, probabili fondatori di Mantova già mille anni prima di Cristo, mancano quasi del tutto i reperti, a parte due anfore trovate scavando in piazza Sordello, il luogo dove Mantova iniziò la sua vita, la terra più alta di tutto l' acquitrino. Anche se adesso le carte dicono 25 metri sul livello del mare, rispetto a un tempo è quasi una montagna: basta vedere le arie che si danno i ciclisti quando ne escono passando sotto il «voltone» dove fu alzata la prima porta della città: paiono discender dall' Adamello. Se trova qualcuno che fa la guardia alla cassa, la signora/Virgilio che gestisce il Caffè Accademia per scalette e cunicoli ti accompagna in cantina, molto sotto al livello stradale e mostra il pavimento romano, un bellissimo mosaico geometrico bianco e nero. «Questa era forse la casa di un benestante» mormora il professor Signorini. Trattandosi di interessante e prezioso reperto, subito viene da chiedere: che cosa ci fa ancora qui? Chi lo tiene pulito? Lo tiene pulito la signora/Virgilio, ma solo perché si tratta di una signora gentile. Quanto al luogo, sono anni che si attende il definitivo restauro della bellissima sede del Museo archeologico. Frattanto, a parte il pavimento nella cantina del Caffè Accademia, quel che resta del passaggio romano è in un cortile del palazzo Ducale: un sarcofago, alcune lapidi funerarie, una dedicata da una signora ai suoi tre mariti, qualche torso maschile e qualche testa. C' era anche un tratto di selciato trovato scavando in piazza Broletto. Ma non c' è più. Certo, non è stato né disfatto e neppure rubato: ma non c' è più. C' è invece, curiosamente, una testolina di marmo incastrata fra le colonne di un' alta bifora della torre campanaria del Duomo, chissà come e chi l' ha portata lassù. E intanto il mistero di questa città ti intriga ancora di più: pare un de Chirico, un Magritte formato padano, un surreale giochino della fantasia. Che cosa ci facessero i romani, qua dentro il lago, non è dato sapere. La grande strada di collegamento fra Verona e la via Emilia non passava da qui; né la Gallica che congiungeva Torino con Padova, e neppure quella che univa Verona con Cremona. Tutte al largo di Mantova: e si vede a occhio nudo che una strada di importante collegamento non può permettersi di scavalcare il Mincio in forma di lago, affondare nella palude e arrancando raggiungere la terra asciutta. Tradizione peraltro immutata, dal momento che i collegamenti con Mantova anche oggi sono tali da farne una delle più isolate fra le città d' Italia. Dunque, gli etruschi erano arrivati fin qui con i loro zufoli di terra, i pugnali, i fondi di cesto intrecciato, le anfore per metterci il grano, l' olio, e anche i morti. Trattandosi di gente intraprendente si erano organizzati in una repubblica retta dai magistrati, mentre la classe dirigente dominava sui lavori agricoli e sui commerci via fiume: c' era il porto naturalmente, pressappoco dove adesso l' immenso monumento a Virgilio sull' omonima piazza indigna il professor Signorini: «È vergognoso che sia diventato il posto più sporco della città». Versi in latino non se ne leggono più, in compenso «Ornella ti amo» è il graffito più decente e gentile. Del passaggio dei Galli che con la loro furia distruttrice spazzarono via i civilissimi etruschi, neanche l' ombra; e niente neppure dei Celti che, fra un' incursione e una razzia, insieme ai Galli si erano fermati almeno due secoli. La città rimase piccola per moltissimo tempo: piazza Sordello, piazza Virgilio, via Cairoli e il lago: oltre non si poteva andare, si sprofondava fra i branzini e le carpe. I romani bonificarono il tratto fra via Cairoli, piazza Paradiso, via Tazzoli e via Cavour: qui perché frattanto si era un poco alzata e asciugata la terra. Scavarono un fossato, alzarono le mura, aprirono quattro porte, le case di legno cominciarono a coprirsi di mattoni o di marmo. Il Mincio incombeva sempre, bastava un' alluvione per cancellare la città della greca indovina. Dev' esserne rimasto impressionato anche Virgilio, che parlando della sua terra aveva scritto «Ingens Mincius», Mincio grande, grandissimo; il Mincio che nel 589 si gonfiò tanto da deviare il proprio corso: non andò più a gettarsi in Adriatico, ma trovò sfogo nel Po, all' altezza di Governolo; il Mincio che a ogni rigurgito del Po saltava addosso a Mantova: e se alla fine dell' XI secolo non fosse arrivato il geniale architetto Pitentino a risolvere il problema, la città non avrebbe avuto futuro. Altrimenti come si spiega il fatto che, dei monumenti romani, nulla è rimasto, neppure sotto le innumerevoli chiese che fiorirono intorno al Mille, sempre sopra i resti di un tempio pagano. L' indovina greca sia la benvenuta e si accomodi, stiano invece lontane le divinità pagane, Mantova è protetta solo da quando si onorano i santi Pietro e Paolo, Alessandro e Agata, Cosma e Damiano, Zenone e Stefano, Salvatore, Lorenzo, Silvestro e Andrea, oltre alle varie santissime Croci e Madonne. «Si può identificare la vera data di nascita di Mantova: il 3 marzo 1048 - puntualizza Signorini - perché, a questo punto, finalmente parlano la carte». Dopo aver sognato per ben tre volte sant' Andrea che gli indicava il luogo dov' era stata nascosta la cassetta contenente le ampolle col sangue di Gesù Crocefisso, raccolte sul Golgota dal soldato Longino (arrivato fin qui risanato dalla vista, convertito e martirizzato) il cieco e tedesco eremita Adalberto riuscì a individuare la preziosa reliquia: e nell' orto dell' ospedale di sant' Andrea, al ritrovamento del Sangue e delle ossa del martire, assistevano inginocchiati la contessa Beatrice di Canossa e il vescovo Marziale che due anni prima, coi soldi della ricca signora che voleva ricordare la nascita di sua figlia Matilde, aveva cominciato a costruire la cattedrale di sant' Andrea: «Da allora, invitati dai signori della città Beatrice e Bonifacio di Canossa, per venerare il Santissimo Sangue che ancora si trova racchiuso dietro sette porte e sette cancelli, arrivarono imperatori, papi, principesse e regine, si tennero concilii e diete, facendo di Mantova una città importantissima». «E allora, anche questa è leggenda - polemizza Giancarlo Malacarne, storico e direttore di "Civiltà Mantovana" -: altrimenti come si spiegherebbe che quella che dovrebbe essere la più grande reliquia della cristianità è venerata solo dai mantovani? Come mai non arrivano a Mantova i pellegrini del mondo? Per non dire delle ossa di san Longino: sono cinque gli scheletri finora trovati». A lui sta bene che Mantova sia stata fondata dall' indovina di Tebe; oppure, come ricorda Virgilio, da suo figlio Ocno che nacque dagli amori di Mantova col fiume Tevere. Gli sta bene che, a differenza di tante città italiane fondate da visioni di santi, ritrovamento di ossa martirizzate, voli di angeliche colombe, Mantova abbia origine da una leggenda tenebrosa e gloriosa: «nientemeno che dalla Grecia, veniamo». E gli sta bene che nel ' 700, scavando ai piedi della porta Cerese, fu trovata una grossa chiave di bronzo che per un bel po' fu ritenuta la chiave della vicina città etrusca: «Poi fu osservato che la chiave portava incisa una torre che aveva una gabbia, la torre della gabbia che tutti ancora vediamo a fianco del "voltone" verso piazza Sordello; peccato però che, con gli etruschi, non abbia niente a che fare: è di età comunale. Così che piano piano la chiave ha perduto la sua leggenda, finché a furia di passare da una mano all' altra non si è perduta anche lei. E comunque, pur vivendo di documenti, non posso rifiutare spazio alla fantasia. Anche il principe rinascimentale si immerge nella leggenda: nella storica tela del Morone che racconta la vittoria dei Gonzaga su Passerino Bonaccolsi, una stupenda signora osserva, sola, avvolta in un mantello a bande oro e nero, la casata dei vincitori: e chi vuoi che sia, se non ancora l' indovina Manto. Nessuno si batterà mai per dimostrare che la leggenda è verità; ma nella nascita della città, è il mito quello che conta». L' etimologia LA DIVINITA' Il nome Mantova, secondo lo storico Rodolfo Signorini, quasi sicuramente deriva da «Manto», un' etrusca divinità infernale. Così come etrusca fu l' origine della città, quasi 1.000 anni prima di Cristo LA MAGA Secondo molte leggende, invece, Manto è una maga greca, figlia dell' indovino Tiresia, fuggito da Tebe, e anche lei fuggitiva. Trovò rifugio nell' acquitrino dove poi nacque la città. Secondo altri, è suo figlio Ocno, nato da Manto e il fiume Tevere, ad aver fondato la città LO STORICO / 2 Malacarne: nella nascita è il mito che conta. Noi veniamo dalla maga di Tebe, che compare anche in un dipinto del Morone: è una donna sola, con il mantello a bande oro e nere dei Gonzaga LO STORICO / 1 Signorini: Le origini, mille anni avanti Cristo, risalgono all' Etruria e poi a Roma. Ma i primi documenti sono datati 1048 e raccontano dell' eremita tedesco Adalberto
Ferri Edgarda
Pagina 52
(14 aprile 2002) - Corriere della Sera
Iscriviti a:
Post (Atom)