domenica 17 marzo 2013

Gabriele D'Annunzio, un mistero fin dalla nascita



Bresciaoggi
martedì 12 marzo 2013

IL PERSONAGGIO. Un primo segno quando la famiglia cambiò cognome

Nato «nel mese fecondo
che da Marte si noma»

Introdotto al mistero da una parente badessa

di Attilio Mazza



Gabriele d'Annunzio nacque 150 anni fa, alle ore 8 di giovedì 12 marzo 1863, «con tante grida nel mese fecondo / che da Marte si noma, / entrando il Sole nel segno / dell'Ariete duro cozzante, / mentre passavan sul nostro / tetto col volubile nembo / i pòllini di primavera», scrisse nelle Laudi. 
Vide la luce nella casa paterna di Pescara in via Manthoné, terzogenito di Luisa de Benedictis andata in sposa il 3 maggio 1858 in Ortona a don Francesco Paolo d'Annunzio; la madre aveva 25 anni, il padre 26 anni. La casa dei giovani e abbienti coniugi era già stata allietata da due eventi: la nascita di Anna (1859) e di Elvira (1861); a completare la famiglia saranno poi Ernestina (1865) e Antonio (1867).
Alla madre, donna riservata, di tradizioni familiari signorili - e alla quale fu assai legato - Gabriele, barando sul giorno di nascita, attribuì il grido profetico: «Figlio mio, sei nato di marzo e di venerdì; chi sa quante grandi cose tu dovrai fare nel mondo!». Tra i giorni della settimana il venerdì è quello che meglio entra nei calcoli cabalistici e superstiziosi; così il poeta scelse di nascere di venerdì.
Anche il padre, amante della bella vita e delle belle donne, signorotto di provincia dai folti mustacchi e dal pizzetto curato, presentì in qualche modo che quel figlio era destinato a un grande futuro; e per festeggiarne la nascita si racconta abbia aperto la casa agli amici offrendo da bere a tutti, vuotando non poche damigiane di vino.
«Nomina sunt omina», dicevano i latini: i nomi sono presagi. Il primo «segno» si ebbe quando non era ancora nato. «Si sarebbe potuto cognominare Rapagnetta, come suo padre Francesco Paolo, come suo nonno Camillo; se non che il padre, adottato da uno zio per parte di madre, ne eredita i beni e il cognome: d'Annunzio. Il quale avrebbe dovuto, tuttavia appaiarsi con Rapagnetta, facendo il cognome Rapagnetta-d'Annunzio; ma non si conosce un solo documento, né di ufficio privato, in cui Francesco Paolo d'Annunzio figuri a un tempo Rapagnetta», scrisse Donatello d'Orazio. E solo il cognome d'Annunzio compare sul certificato di nascita di Gabriele. Giustamente osservò ancora d'Orazio: «Chi riesce a immaginare Laus vitae, poniamo, firmato anziché d'Annunzio, Rapagnetta?».

RITI SUPERSTIZIOSI. A una «fattura» fattagli dal nonno paterno, o meglio dalla consuetudine abruzzese di mettere nelle fasce del neonato monete d'argento (quattrocento), il poeta fece risalire la propria irrefrenabile prodigalità, scrisse al proprio editore Emilio Treves: «Ma lo sai che ero appena nato e mi corazzarono con quattrocento piastre d'argento? Come puoi dire che io non sappia il valore del danaro, se me lo misero tra le pieghe stesse delle fasce?» E sublimerà la propria travolgente prodigalità col motto «Io ho quel che ho donato» che volle inciso anche sul frontone triangolare della fontana al centro dei due principali portali d'ingresso del Vittoriale.
Una «fattura» di altro genere gli fece la nonna paterna donandogli un paio d'orecchini di brillanti: l'antica e gentile tradizione d'Abruzzo consente, infatti, di regalare ornamenti femminili al primo maschio di una coppia giovane, come auspicio e legame di felicità fino al giorno del matrimonio, quando cioè sceglierà la sposa e a lei offrirà quel dono. 
Chi crede nelle «fatture» potrebbe spiegare con questo episodio la componente femminea del carattere di d'Annunzio, da cui discenderebbero l'eterna malinconia, una certa passività, addirittura il suo inesauribile desiderio della donna: «se ne invoglia fino a quando non incontra in essa ciò che egli stesso possiede». Del resto, tra i numerosi pseudonimi, non disdegnò quello di Mimosa; alcuni biografi hanno anche rilevato la sua ambigua amicizia con celebri gay, come lo scrittore conte Robert de Montesquiou-Fezesensac a Parigi e alcuni fedelissimi a Fiume.

SAN GABRIELE. Ferruccio Ulivi ipotizza che sia stata la madre a pensare al nome nel ricordo del santuario di San Gabriele sulle pendici del Gran Sasso. «Ma dové intervenire anche l'assonanza che veniva a sigillare il cognome acquisito appena da una generazione: d'Annunzio». Già dai casati della madre, de Benedictis, e da quello del padre, D'Annunzio, si possono leggere i segni del destino; e al suo nome darà alte interpretazioni, creando giochi di parole: «Se io porto il nome dell'Arcangelo, ho nella mia mente il suggello sovrano dell'Arcangelo. Platone direbbe di me che sono una natura regale». Gli piacque ritenere la madre imparentata con Jacopo de Benedictis (o de' Benedetti), il grande poeta francescano Jacopone da Todi; tra i suoi avi ricordò anche, in una lettera, un antico tipografo: «Ho ritrovato un documento che dimostra come mia madre discenda da uno dei più insigni stampatori del primo rinascimento : Plato de Benedictis».
Tra le prime forti impressioni che gli rimasero impresse vi fu quella della casa materna di Ortona, vastissima «di architettura massiccia, tra il monastero e il fortilizio, tutta atrii anditi vestivoli cortili adornati di logge giardinetti murati corridoi lunghi a spartitura di stanze quasi celle». 
A Ortona, badessa del convento era una congiunta della madre, una Onofrii la cui famiglia ebbe in feudo Paganica. Il poeta raccontò l'introduzione ai misteri del destino che si leggono sulla mano avuta a nove anni dalla priora: «Dal parlatorio comune ella mi ammise nell'intimo della vita monastica: in privilegio di nepote. mi accoglieva talvolta nel segreto della cella quando s'adoperava a sapere le cose occulte e le venture con le sue arti divinatorie, se bene la divinazione sia stata sempre condannata dalla Chiesa mi prese le mani, me le voltò; e si mise ad esaminare i segni nell'una e nell'altra palma, mentre su le sue labbra vedevo disegnarsi parole non proferite. aguzzava ed eludeva la mia smania di sapere». Onufria lesse il destino di Gabriele inciso sulle mani e, raccontò in un libro, alla sua incredulità esclamò: «non dubitante ma ignorante sei. l'ignoranza nega il mistero perché non sa discernere i gradi del lume. tu sei mistero a te stesso, o figlio. qui, in questo tuo dittico vivente, son rivelati con brevi segni i segreti del tuo cuore e in bene e in male». 
E fu quella l'introduzione al mistero che dì Annunzio indagò nella vita e nell'arte. 

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